Omelia dell’Arcivescovo Carlo Roberto Maria Redaelli per la festa dei Santi Ilario e Taziano, patroni di Gorizia, 16 marzo 2024
La nostra città, di cui celebriamo oggi i santi Patroni, ha avuto il dono di essere all’inizio di quest’anno il luogo prescelto per la tradizionale marcia della pace promossa da Pax Christi, Caritas, Azione Cattolica e altre organizzazioni cristiane. Un migliaio circa di persone hanno camminato, riflettuto, pregato, cantato insieme, unite dalla preoccupazione per la guerra e dal desiderio di invocare la pace. Lo hanno compiuto percorrendo un itinerario partito dal sacrario di Oslavia per giungere oltre confine alla concattedrale di Nova Gorica, passando dal ponte dell’Isonzo, l’oratorio San Luigi (luogo di accoglienza dei migranti minorenni), la chiesa di Sant’Ignazio, la sinagoga, la piazza Transalpina.
In quella circostanza mi ha molto colpito un’osservazione che ho sentito formulare da molte persone, venute da fuori, che avevano partecipato negli scorsi anni alla stessa iniziativa svolta in altre parti di Italia: “quest’anno è diverso dalle altre marce della pace, stasera non c’è bisogno di parole, qui gli stessi luoghi parlano di pace”. Un’affermazione che mi ha fatto riflettere e anche – non lo nascondo – mi ha fatto piacere. Tradotta in altri termini significa che Gorizia e, aggiungerei, con Nova Gorica (un collegamento che è prima e va al di là dell’esperienza della Città della cultura 2025) è una città che per sua natura parla di pace.
Qualcuno potrebbe osservare che la cosa non è tipica solo di Gorizia. Proprio ieri, per esempio, il presidente Mattarella è stato a Cassino, luogo che ha definito come una città e luogo martire. Impressionanti le sue parole: «Nella drammatica storia della Seconda Guerra mondiale, con le sue immani sofferenze, Cassino, la città e il suo territorio, queste popolazioni, sono tragicamente entrate nell’elenco dei martiri d’Europa, accanto a centri come Coventry, come Dresda. Gli storici ci consegnano la cifra di 200.000 morti quale conseguenza dei 129 giorni di combattimenti qui avvenuti. I cimiteri, e quelli di guerra, dedicati ai combattenti delle diverse armate, fanno qui corona e ammoniscono. Una tragedia dalle dimensioni umane spaventose».
Potremmo ricordare, in una tragica classifica di morti, che per sé tra i 100.000 morti italiani sepolti a Redipuglia, gli altri 14.550 morti soprattutto ungheresi sepolti sempre a Redipuglia nel cimitero austro-ungarico e i 57.000 di Oslavia, anche da noi, solo parlando di cimiteri, arriviamo vicino ai 200.000 morti. Potremmo poi aggiungere che, diversamente da Cassino e da altri luoghi di Italia segnati da episodi di guerra, Gorizia ha avuto il tragico privilegio di essere in mezzo, suo malgrado, a due guerre, che l’hanno tagliata in due. O, inoltre, che ottant’anni fa ha visto la scomparsa della sua comunità ebraica e la deportazione di centinaia di suoi cittadini. E ricordare altro ancora, compreso il fatto – per restare alla cronaca di questi giorni – che la guerra di molti anni fa ci ha lasciato alcuni “ricordi” ingombranti: tre bombe pesanti due più di 200 kili e una più di 100 kili, che costringeranno molte persone a lasciare temporaneamente le loro case senza guardare al confine che la guerra stessa ha fatto nascere.
Gorizia, allora, votata a essere, con Nova Gorica, per la sua storia e per i suoi luoghi, più di altre città italiane ed europee “città della pace” e non solo della cultura per un solo anno? È proprio così? Vorrei rispondere immediatamente di sì, senza incertezze, ma non sarebbe giusto. La risposta corretta è dire che sì potrebbe esserlo e che, anzi, esistono tutti i presupposti perché lo sia, ma ci sono delle precise condizioni. Nessun automatismo, pertanto. E le condizioni sono almeno due e tutte legate alle persone. Quindi a noi.
La prima è l’interpretazione dei luoghi e della storia. Mi spiego con un semplice esempio. Prendiamo proprio il luogo da cui è partita la marcia della pace, il sacrario di Oslavia, meno solenne e retorico di quello di Redipuglia, ma forse per questo più adatto a una pacata riflessione come quella che – ne sono certo – ha provocato nei partecipanti alla marcia, che quel pomeriggio andavano alla ricerca di qualche soldato morto con il proprio cognome, forse un parente ancora ricordato in famiglia. Ebbene, il sacrario di Oslavia, come qualunque altro cimitero di guerra, può essere visto come luogo dove piangere con immensa pietà i giovani morti, dove prendere atto della tragicità e della inutilità della guerra, come ha fatto papa Francesco ormai dieci anni fa a Redipuglia (lo ricorda molto spesso, anche nell’ultima intervista), e quindi come edificio che per sua natura grida: “basta la guerra!”. Oppure lo stesso luogo può essere visto come un sacrario dove celebrare degli eroi che hanno difeso la nostra patria contro il nemico (o forse hanno attaccato loro per primi la patria del nemico, ma questo non si può dire…) o anche come monumento presso cui promettere vendetta ai morti, progettando appena ce ne sia l’occasione la ripresa della guerra contro il nemico.
La stessa cosa vale per gli avvenimenti della storia, che possono essere riletti nella loro tragica oggettività di distruzione di una civiltà di pace e di giustizia e come stimolo a ricostruire rapporti di collaborazione tra i popoli o come ferita data alla propria nazione da vendicare con il sangue preparando la prossima guerra.
Sono solo degli esempi e ovviamente l’interpretazione di luoghi e avvenimenti della storia è una realtà molto complessa e impegnativa che va ben al di là di questi accenni. Ma bastano per sottolineare che non è detto, al di là dell’apparenza, che luoghi e avvenimenti “parlano da soli” e che parlano necessariamente di pace.
La seconda condizione richiesta affinché una città come la nostra divenga sempre più una realtà di pace è la concreta azione per la pace, iniziando dalla situazione in cui ci si trova e dalla sua interpretazione a partire dai valori della pace, della giustizia, della fraternità, del perdono, della riconciliazione. Su questa strada – è giusto riconoscerlo – si sono compiuti qui da noi diversi passi negli ultimi decenni. Lo ha ricordato domenica scorsa il Presidente Pahor dialogando con i giovani goriziani nati dopo il 2004, quando ha detto ai ragazzi: «Voi vedete delle cose che i goriziani venuti prima di voi non hanno potuto vedere. Oggi ci sono concetti che 30 anni fa non si esprimevano e che 50 anni fa nessuno osava nemmeno pensare». Ed ha significativamente girato a loro la domanda su Gorizia e Nova Gorica: «Come vedete voi le città fra 20 anni?».
Come sarà Gorizia e Nova Gorica tra 20 anni dipenderà certo da quei ragazzi che domenica sono intervenuti con grande intelligenza e passione nel dialogo con il presidente che ha guidato la Slovenia negli ultimi anni. Ma dipende oggi anzitutto da noi adulti: dobbiamo decidere se e come continuare il lavoro per la pace che le generazioni che ci hanno preceduto hanno iniziato. Persone – non dimentichiamolo – che spesso portavano nella loro mente e nel loro cuore le ferite della guerra e del confine, eppure non si sono arrese al dolore e al desiderio di rivendicazione e con creatività e coraggio hanno intrapreso vie di riconciliazione. Certamente gli avvenimenti positivi degli ultimi decenni del secolo scorso e l’esistenza dell’Europa – realtà spesso e anche giustamente criticata, ma fondamentale per le nostre due città – ci hanno molto aiutato. però senza l’azione di pace di molti di qua e di là del confine, il crollo del muro di Berlino e l’ampiamento dell’Unione europea non sarebbero bastati a cambiare la nostra situazione.
Stiamo celebrando i nostri Patroni, dei martiri, persone che hanno dato la vita per un ideale. Per un ideale giusto, quello del Vangelo. Si può infatti dare tragicamente la vita anche per un ideale sbagliato. Gli ideali giusti, naturalmente, non sono solo quelli esplicitamente evangelici: ci sono persone credenti in altre religioni o comunque ispirate a un’alta concezione dell’umanità, che hanno dato la vita per ideali di pace e di giustizia. E talvolta è successo, purtroppo, che dei cristiani abbiano dato la vita per ideali contrastanti con il Vangelo. Non è stato così per Ilario e Taziano e per tanti uomini e donne che ancora oggi sacrificano la vita per costruire un mondo più vicino a quello che Dio aveva in mente creando l’universo e per redimere il quale suo Figlio Gesù si è consegnato alla morte di croce rivelando così un Dio che continua ad amare anche quando infuriano la violenza e l’odio.
In questa Eucaristia celebriamo quella morte, quell’amore che salva il mondo e che sostiene il nostro impegno di pace per questa bella nostra Città. Lo facciamo invocando i nostri Patroni e affidandoci ancora una volta alla loro intercessione affinché Gorizia con Nova Gorica siano segno di pace per l’intera Europa oggi e nel futuro.
Foto di copertina: Antonio Paroli, Santi Ilario e Taziano, olio su tela, Gorizia, Musei Provinciali
Altre foto: Sergio Marini